«Ad ogni Uomo che mantiene una Casa... / Ad ogni Donna che “si occupa della casa”... / Ad ogni domestico, posseduto, assunto o sposato... / A ogni ragazzo e ragazza che vive a casa... / Ad ogni bambino che è nato e cresciuto a casa...»
- Charlotte Perkins Gilman, The Home: Its Work and Influence, 1903.
Nel 1972, Emilio Ambasz curava al MoMA la mostra Italy: The New Domestic Landscape, un’esposizione-manifesto che codificava il cosiddetto “design radicale” italiano, con nomi come Archizoom, Superstudio, Gruppo Strum, Ettore Sottsass, Ugo La Pietra, ecc. All’estetica funzionalista del dopoguerra questi gruppi contrapponevano oggetti provocatori, linguaggi visionari, ambienti performativi che decostruivano la domesticità borghese. Tuttavia, nonostante la carica sovversiva delle loro pratiche, il racconto storiografico ha finito per inscrivere questa stagione entro una genealogia tutta maschile, spesso distaccata da ogni forma di politica corporea, sessuale o relazionale. In queste utopie radicali ciò che non viene mai tematizzato, se non come riflesso collaterale, è proprio la questione di genere. Eppure, uno scarto inatteso si apre se si mette in tensione questa genealogia con quella – più sotterranea ma non meno radicale – del primo femminismo occidentale di fine Ottocento.
Nella cronologia della radicalità e nella storiografia della critica moderna il femminismo architettonico è spesso uno straordinario assente. Ad esempio, nella celebre storia d’architettura redatta da William J. R. Curtis, Modern architecture since 1900 – considerata l’opera di riferimento sull’architettura del XX secolo – non vi è traccia né dei progetti radicali femministi di fine Ottocento né dei collettivi sociali che portarono avanti la causa femminista nel ‘900. Nel capitolo dedicato alle comunità utopiche e alle alternative alla città industriale, veniva citata la Garden City di Ebenezer Howard ma si tralasciavano completamente le comunità ideali immaginate da Alice Constance Austin e da Marie Stevens Howland a inizio secolo. La cucina di Francoforte di Margarete Schütte-Lihotzky era liquidata in due righe, senza alcuna spiegazione della sua genesi, tanto da sembrare – più che una tappa consapevole di un percorso progettuale e politico – una meteora o un’astronave extraterrestre atterrata senza preavviso all’interno della storia di architettura.1 La stessa cucina, in occasione della mostra del ‘72, veniva indicata da Manfredo Tafuri come «l’esempio più convincente di design europeo ‘radicale’ nel periodo tra le due guerre».2
È proprio per contrastare questa visione androcentrica che, nel 1984, il collettivo femminile londinese Matrix Feminist Design Co-Operative3 pubblica Making space - women and the man made environment, articolando una critica nei confronti dell’architettura moderna a partire da una domanda: «what’s wrong with modern architecture?».4
«Crediamo che la questione di cosa sia “andato storto” nell'architettura moderna non possa essere discussa in modo adeguato senza la consapevolezza dell'invisibilità della vita delle donne per i professionisti che progettano edifici e città».5
Matrix portava alla luce le contraddizioni di un sapere costruito da corpi maschili, per corpi maschili, su modelli patriarcali di spazio, autorità e produzione, denunciando l’esclusione sistematica delle donne non solo dalla professione, ma dalla stessa idea di progetto. Quello del collettivo londinese era a tutti gli effetti un richiamo a guardarsi intorno, ad osservare la realtà senza ignorare quell’enorme elefante – di sesso maschile – presente nella stanza. Quel “fare spazio” significava rivendicare attivamente un luogo (fisico, sociale, professionale) per le donne all’interno della disciplina architettonica. Lo spazio, dunque, era – e sostanzialmente rimane – una questione centrale. Uno dei limiti più evidenti e delle contraddizioni più profonde dell’architettura moderna, che il collettivo denunciava, era proprio quello di aver negato quello spazio: aveva promesso un ordine equo e un abitare universale ma aveva costruito un mondo parziale, incompleto, che ignorava le alterità, i corpi, e le relazioni che non rientravano all’interno dei suoi modelli normativi.
«D’altra parte, il XX secolo, in particolare a partire dalla seconda guerra mondiale, ci ha lasciato un'eredità di edifici e di città che sottolineano l’enorme divario tra le intenzioni architettoniche e urbanistiche e le realtà sociali e politiche. Spesso avvertiamo una vera e propria disgiunzione tra la forma fisica e la realtà sociale (o almeno ciò che la realtà sociale potrebbe avere».6
Per Elizabeth Grosz, una delle principali studiose del legame tra genere, sessualità e spazio «la soluzione a questo debito inconfessabile non è la creazione di spazi femminili (o spazi queer, o spazi di identità subordinate o escluse) […] ma piuttosto l’esplorazione (scientifica, artistica, architettonica e culturale) dello spazio in termini diversi. Cercare modi di «rappresentare lo spazio – presupposti per occuparlo e usarlo in modo diverso – che siano più in accordo con i tipi di spazio, e di tempo, repressi o non rappresentati nella struttura convenzionale».7
Proprio a partire da questa negazione – e da una crescente consapevolezza del carattere normativo dello spazio – negli anni ’70 si apre una stagione di critica radicale alla modernità architettonica. Il linguaggio radicale, in particolare, nasceva come tentativo di disinnescare i dogmi moderni con progetti come No-Stop City (Archizoom, 1969) o Supersuperficie (Superstudio, 1972) che mettevano in scena, evidentemente, la dissoluzione dello spazio domestico. Proprio per questo, il tentativo di immaginare una “nuova domesticità” sollecitato dalla mostra del ‘72, nella sua ambivalenza, sembra conservare inevitabilmente una domanda femminista mai del tutto indagata e mai del tutto risolta: può lo spazio essere emancipatorio?
Pur non avendo l’intento di rivendicare esplicitamente qualche istanza politica o sociale – anche se con una spiccata critica alla società del consumo – la mostra affermava che l’utopia doveva reinventarsi a partire dalle mura domestiche. Eppure, mentre i gruppi radicali mettevano in scena l’implosione della domesticità con l’ironia, lo shock visivo del collage d’avanguardia e l’astrazione simbolica, le attiviste femministe avevano già operato una critica ben più profonda, anche se meno celebrata: una critica incarnata, relazionale, materiale, che partiva dal corpo e dalla soggettività femminile. Laddove Archizoom disegnava Superwave (1966), Charlotte Perkins Gilman aveva già messo in discussione “l’ergonomia di genere” dello spazio; laddove Superstudio immaginava il Monumento Continuo (1969-70), le utopie femministe avevano già criticato l’ordine razionale, quello dell’architetto-demiurgo, che cancellava le differenze in nome di una presunta efficienza universale.
Quella stagione progettuale condivideva con il primo femminismo l’ossessione per la casa come sito di contestazione, come “cellula di utopia”, ma la differenza sostanziale tra gli esperimenti radicali della postmodernità e le proposte radicali del femminismo architettonico di fine Ottocento è esattamente quella che passa tra una critica concettuale e una critica «incarnata»: tra un corpo e una griglia.8
Le utopie e i progetti «incarnati» del femminismo architettonico – Dolores Hayden li descrive perfettamente in The Grand Domestic Revolution – erano, ad esempio, i testi critici e utopici come The Yellow Wallpaper o Herland della femminista Charlotte Perkins Gilman o l’insieme di teorie e progetti rivolti alla ricerca di una comunità alternativa e di modi diversi di abitare, esplorati nell’ampio dibattito sulla casa senza cucina tra il XIX e il XX secolo, come quelle di Alice Constance Austin, Marie Stevens Howland, Lily Braun, Melusina Fay Peirce, ecc.9 Questi progetti erano radicali, sconvolgenti, forse più sovversivi delle visioni radicali che un secolo dopo avrebbero popolato le riviste di architettura.
I Radicals degli anni ‘70 potevano permettersi di essere sovversivi senza infondo essere minacciosi, ma per quel femminismo radicale era invece necessario, inevitabile, mettere direttamente in crisi l’intero sistema – sociale e architettonico – e i suoi stessi attori. La sua radicalità risiedeva interamente nella capacità di immaginare altro: di evocare visioni alternative alla realtà data, destrutturando la società patriarcale attraverso il progetto. In questo processo, la tensione utopica si univa a quella concretezza dei bisogni e delle esigenze reali che da sempre occupano la sfera della quotidianità. Questo potrebbe rappresentare, ancora oggi, l’altro paesaggio domestico: quello non del tutto raccontato, ma estremamente significativo nell’interrogare l’architettura a partire dai margini, dai corpi, dagli spazi negati o, in altri termini, nel disvelare le strutture di potere che determinano lo spazio stesso.
Diego Morabito – Archiverso® Podcast
Dal Curtis: «May e i suoi colleghi si dedicarono a ricerche più approfondite sulla logistica d’uso e di produzione in serie di produzione a tutte le scale, dagli spazi esterni, alle abitazioni individuali, alle finiture più minute. Da questo contesto emerse, per esempio, la “Cucina di Francoforte”, compatta ed estremamente funzionale, progettata da Grete Schütte-Lihotzky», p. 249 (ed.it). Per un’attenta disamina dell’inclusione dei contributi delle donne all’interno delle storie di architettura, vedi: M. Ö. Gürel and K. H. Anthony, The Canon and the Void: Gender, Race, and Architectural History, in «Journal of Architectural Education (1984-)», Feb. 2006, Vol. 59, No. 3, pp. 66-76.
M. Tafuri, Design and Technological Utopia, in E. Ambasz (a cura di), Italy: the new domestic landscape achievements and problems of Italian design, MoMA, Centro Di., New York-Firenze 1972, p. 389.
Composto inizialmente da Frances Bradshaw, Susan Francis, Barbara McFarlane, Anne Thorne, Julia Dwyer, Jos Boys e Benedicte Foo, il collettivo, fondato a Londra nel 1981, era una delle prime organizzazioni architettoniche a portare l’approccio femminista all’interno della disciplina architettonica e della progettazione.
Matrix, Making space. Women and the man made environment, Pluto Press, 1984, p.5.
Matrix, op. cit., p.6.
Matrix, op. cit., p. 38.
E. Grosz, Architecture from the outside. Essays on virtual and real space, The MIT Press, 2001, p. 162, 157.
La Grosz si chiede cosa voglia dire un’utopia incarnata: «Come si inseriscono i corpi nell'utopico? In che senso l'utopico può essere inteso come incarnato?». E. Grosz, op. cit., p. 142.
D. Hayden, The Grand Domestic Revolution, The MIT Press, 1982.
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